La sensazione più forte che ho provato guardando The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun è stata quella di un film costruito per soddisfare la mente dello spettatore, un po’ meno il suo cuore. Si tratta, infatti, di un’opera estremamente accattivante sul piano razionale, concepita attraverso una cura raffinatissima del dettaglio. Si può considerare un piccolo capolavoro di inventiva. Basti pensare all’inserto animato utilizzato per narrare l’inseguimento dei rapitori del figlio del commissario di polizia di Ennui, nel quarto capitolo del film. Oppure alla scelta di alternare sezioni a colori ad altre in bianco e nero.
A fare da contraltare ad una simile accuratezza stilistica, si può individuare, a mio avviso, il carattere poco empatico che contraddistingue The French Dispatch. Come sembrerebbe quasi indicare il nome stesso della cittadina immaginaria in cui si svolgono i fatti (“Ennui” in italiano si può tradurre con “noia”), il film riesce a comunicare un senso di distanza e quasi di apatia. Inoltre, come molti personaggi dei suoi film, anche i protagonisti dell’ultima fatica di Wes Anderson sono assimilabili a bizzarre figure fumettistiche, quasi degne del Teatro dell’Assurdo. Essi animano con le loro vicende il mondo visionario creato dal regista, ma, emotivamente parlando, lasciano percepire un muro che lo spettatore fatica ad abbattere. Prendiamo il signor Moses Rosenthaler, il detenuto artista che rappresenta il personaggio principale del secondo capitolo del film, Un capolavoro nel cemento. Sebbene Moses, interpretato da Benicio del Toro, presenti un volto capace di comunicare un forte senso di umanità, la sua vicenda è narrata attraverso una modalità ironico grottesca. Si può portare ad esempio l’atteggiamento tenuto dal co-protagonista di questa sezione, il detenuto Julien Cadazio, intenzionato ad investire nell’arte di Rosenthaler ed interpretato da Adrien Brody, il quale comunica e tratta con i secondini distribuendo in modo apatico una serie di marrons glacés. Rosenthaler e Cadazio sembrano spesso essi stessi parte di un’opera figurativa. Nella sequenza che racconta la trattativa tra i due in merito all’acquisto da parte di Julien di un’opera di Moses, ad esempio, al gioco di campo-controcampo che accompagna la conversazione, il regista fa seguire una inquadratura che ritrae entrambi i personaggi. Tale inquadratura è realizzata attraverso lo spioncino rettangolare posto sulla porta della cella e rappresentante la soggettiva della guardia Simone.
Il personaggio di Moses è descritto dalla voce narrante (la giornalista J.K.L. Berensen, interpretata da Tilda Swinton) come una figura strampalata. Dopo aver raccontato le vicende inerenti alla sua giovinezza che lo hanno condotto fino al carcere, la donna ricorda l’abitudine di evitare l’uso dello spazzolino da denti, tenuta da Moses durante i primi dieci anni di detenzione. La descrizione del personaggio è condotta in modo distaccato, quasi si trattasse di una sorta di “fenomeno da baraccone”. La relazione amorosa che Moses instaura con Simone è forse l’unico aspetto in cui lo spettatore possa riconoscere una certa complicità emotiva.
La curatrice del terzo capitolo del film, Revisioni di un manifesto, ovvero la giornalista Lucinda Krementz (interpretata da Frances McDormand) appare meno distante e fredda rispetto alle vicende che narra, anche perché essa ha modo di entrare maggiormente in contatto con i protagonisti del suo articolo. Lucinda vive, anzi, una breve relazione con uno di loro, il giovane Zeffirelli (Timothée Chalamet). Tuttavia, anche in questo capitolo è riconoscibile una certa ironia beffarda, come si può dedurre dallo slogan dei giovani studenti in lotta protagonisti dell’articolo, che recita Les enfants sont grognons (I giovani sono ingrugnati). Anche il rapporto tra Zeffirelli e la Krementz, sebbene sfoci in una breve relazione, viene raccontato attraverso una modalità quasi assurda e macchiettistica. Durante una cena a casa della famiglia del ragazzo, ad esempio, la giornalista si reca in bagno per ricomporsi dopo gli effetti delle sostanze lacrimogene diffusesi nell’aria durante una manifestazione. In questa occasione, avviene il primo vero incontro tra la donna e Zeffirelli. Quest’ultimo chiede alla Krementz come mai stia piangendo e questa risponde, senza cambiare espressione: ‹‹Lacrimogeni. E poi, mi sembra di essere triste.››.
Occorre riconoscere un aspetto ulteriore riguardante il terzo capitolo di The French Dispatch, ovvero il suo particolare interesse visivo. Mi riferisco, nello specifico, all’utilizzo di elementi scenografici riccamente colorati e di una sorta di scenografia mutevole, che ricorda quella di uno spettacolo teatrale. Essa, rappresentante in un primo momento la facciata di un locale, si trasforma subito dopo nell’interno del locale stesso. Ciò è reso possibile dall’azione di un operatore che, visibile in scena, sposta una parete dell’edificio per mostrarne la sala interna.
Il quarto capitolo del film, La sala da pranzo del commissario di polizia, appare quello più ricco di empatia, nonostante l’ironia grottesca che ugualmente lo pervade. Questo si verifica in gran parte grazie alla calda espressività del volto di chi narra la vicenda, il giornalista Roebuck Wright, interpretato da Jeffrey Wright e all’esperienza biografica dell’uomo stesso. Wright racconta, durante l’intervista che lo vede protagonista, di essere stato incarcerato per il fatto di essere omosessuale (‹‹Vede, la gente si può sentire più o meno minacciata dalla tua rabbia, il tuo odio, il tuo orgoglio, ma ama nel modo sbagliato e ti ritroverai in grave pericolo.››). La rappresentazione del profondo affetto che lega il commissario e suo figlio è probabilmente corresponsabile del maggior coinvolgimento emotivo trasmesso dal quarto capitolo. Ciò è possibile malgrado la presenza di alcuni elementi bizzarri, che, al pari delle altre componenti grottesche presenti nel resto del film, potrebbero rendere difficile la partecipazione emotiva dello spettatore. A un certo punto, ad esempio, assistiamo al commissario che si concede una lussuosa ed abbondante cena prima di riprendere la pianificazione della strategia atta a liberare il figlio rapito.
In ogni caso, durante l’intero film, nonostante la presenza di piccole eccezioni, rimane forte l’impressione che il regista abbia voluto porre una distanza tra le vicende narrate e lo spettatore, tale da rendere molto difficile una reale partecipazione emozionale.
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