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Midaregami, l’erotismo arruffato di Akiko Yosano

Se qui adesso

ripenso al percorso

della mia passione,

somigliavo a un cieco

senza paura del buio.



Nel 1878 dal cielo di Osaka cadde una stella.


E ciò che era perfetto ed irraggiungibile divenne terreno, tangibile, sconvolgente.


Midaregami (“capelli scompigliati”), la prima raccolta di poesie pubblicata dalla poetessa Akiko Yosano, destabilizzò totalmente l’opinione pubblica nipponica del primo Novecento.

Quattrocento struggenti tanka (componimenti poetici da cui sono derivati gli haiku, coposti da trentuno morae sullo schema di versi 5-7-5-7-7) che descrivono con minuzioso pathos una femminilità svelata, dove la donna da soggetto passivo viene finalmente mostrata come parte integrante dell'impero dei sensi.



Nell'immaginario del tempo, i capelli di una donna "rispettabile" erano composti, ben pettinati e finemente acconciati; la chioma spettinata su una donna era vista solo come conseguente ad un rapporto sessuale particolarmente appassionato, pertanto sconveniente se mostrata con orgoglio in pubblico.

Ma Akiko, la stella di Osaka che leggeva i classici giapponesi sotto le coperte da bambina, era innamorata della libertà.

L'amore, l'eros, l'introspezione e l'individualismo dei suoi versi fa quasi inorridire il panorama letterario dell'epoca; un capovolgimento così repentino del ruolo della donna in un contesto così intimo e rassicurante

fa trasalire gli intellettuali nipponici, abituati all'immagine della donna umile, modesta, di poca cultura ed istruita alla non beligeranza morale pur di evitare il timore degli uomini.

La donna descritta da Akiko Yosano sa ciò che vuole, è appassionata nell'amore e risoluta nell'animo, dai capelli liberi e la pelle impudica.

Donna terrena, non siderea perfezione da idolatrare ma concreto essere umano da combattere e stringere in una notte di luna calante.


Capelli neri

arruffati in mille trecce.

Arruffati i miei capelli e

arruffati i miei arruffati ricordi

delle nostre lunghe notti d’amanti.




E terreni sono i suoi tormenti, nel componimento Daiichi no jintsū (Il primo dolore del parto) Akiko descrive per la prima volta dal punto di vista femminile una maternità dolorosa e terrorizzante, che strappa lembo dopo lembo la retorica che descriveva il momento del parto solo

come sacro ed etereo, rivelando altresì il cuore pulsante di sofferenza fisica ed emotiva vissuta nelle sue undici gravidanze.


Il suo animo pacifista mostra i denti nella poesia libera Kimi shinitamō koto nakare (Ti prego, non morire) dedicata al fratello nel 1904, nel pieno del conflitto russo-giapponese, sottolineando le angosce della donna durante la guerra e i profondi ideali democratici delle sue opere.

Akiko ha combattuto per il suo amore (l'editore della rivista letteraria Myōjō, Tekkan Yosano, sposato all'epoca del loro primo incontro) osteggiato da tutti, per la libertà di godere del suo corpo e del suo intelletto, per la missione dell'istruzione femminile, e per le sue infinite contraddizioni (nel 1928, dopo un viaggio in Mongolia e Manciuria, ripudia l'ostilità verso l'esercito imperiale giapponese, nonostante abbia scritto una delle opere pacifiste più importanti del Giappone).


Nonostante l'oblio della sua dipartita, le critiche feroci dell'universo intelletuale e patriarcale del tempo, l'ambivalenza di alcuni suoi ideali e il sottile disprezzo per la sua vita leale e dissoluta al tempo stesso i capelli di Akiko danzano ancora nel vento, ancorati alla testa di ogni donna libera.


Via Lattea:

a letto, con lui,

apro la tenda

e guardo come, all’alba,

si separano due stelle.


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