È il 4 ottobre del 1982 quando al Music Machine di Los Angeles si tiene il party ufficiale per il lancio dell’album The Days of Wine and Roses dei Dream Syndicate che verrà pubblicato ad halloween. Ad anticipare gli headliners sul palco ci sono The Bangles, i Salvation Army (che di lì a poco avrebbero cambiato nome in The Three O’Clock) e i Rain Parade.

Steve Wynn nel suo libro di memorie incentrato sui suoi primi 28 anni di vita, quelli delle prime incarnazioni dei Dream Syndicate fino al ritorno nel 2012, dal titolo Non lo direi se non fosse vero, edito in Italia da Jimenez, ricorda quel momento così:
Il concerto fece il tutto esaurito in prevendita, e quello fu il momento in cui la nostra scena raggiunse l’apice e iniziò il declino, dato che tutti noi dovevamo rispondere alle richieste di portare la nostra musica in giro. La morte di ogni grande scena musicale è dettata dal successo, perché non si passa più il tempo a casa, non si sta più insieme. La tua città, i tuoi luoghi di ritrovo, i tuoi concerti, i tuoi locali si allargano al resto del mondo.
È sicuramente peculiare la lettura che Wynn dà del passato facendo coincidere l’inizio del declino di un movimento addirittura prima che un solo album avesse visto la luce. I Dream Syndicate sono infatti gli apripista del Paisley Underground (nome ricavato dalle camice a fantasia floreale), scena che, per una volta, non è creata ad arte da critici per catalogare musica affine, ma davvero composta di ragazzi - più o meno della stessa che età - che si conoscono, si stimano, si frequentano e collaborano. Una scena che era adolescente quando è deflagrato il punk e che poi andando a ritroso ha scoperto Velvet Underground e Stooges, il garage rock, la musica psichedelica e poi, di punto in bianco, ha visto il ruolo della chitarra affievolirsi e quasi scomparire con l’avvento degli anni ’80. Un gruppo di band (a cui aggiungere, rispetto a quelle presenti al concerto al Music Machine, i Green on Red e i Long Ryders) con base a Los Angeles che decide di realizzare musica perché non sente più alla radio quel sound che ama.
The Days of Wine and Roses è il capostipite e l’album più rappresentativo del Paisley Underground che in seguito vede tutte le band della scena realizzare un disco o due di rottura rispetto al mainstream del periodo e poi normalizzarsi per i motivi descritti da Steve Wynn e per le pressioni delle case discografiche. All’inizio un concerto dei Dream Syndicate è provocazione con canzoni dilatate all’infinito, feedback sempre più lancinanti e cover all’interno della setlist che sembrano voler sfidare il gusto degli spettatori. Il punto di svolta è un concerto al Roxy, il locale più prestigioso di Los Angeles in cui hanno già suonato, tra gli altri, Lou Reed, i Television, Bruce Springsteen, Richard e Linda Thompson e Nils Lofgren.
Adesso gli headliner eravamo noi e il concerto era sold out. Erano presenti i rappresentanti della nostra etichetta e tutti i maggiori critici rock locali. E, cosa insolita per noi all’epoca, fummo sobri, sia chimicamente, sia in termini di scaletta e performance. Suonammo il nuovo album e lo suonammo come suonava su dico, riducendo al minimo i miei commenti ironici. Il pubblico apprezzò, ma io non ero contento. Mentre ero con Dennis (il batterista) nel parcheggio al termine della serata, dissi: “Abbiamo venduto tutto”. Non mi riferivo al numero di persone presenti in sala. Reagivo così a una delle prime e uniche volte in cui ci eravamo comportati come una band ordinaria, professionale; eppure, invece di sentirmi come se avessimo varcato una soglia e avessimo capitalizzato il nostro successo – peraltro cose vere entrambe – ero imbarazzato. Mi sentivo un impostore. All’epoca avevo l’inclinazione a pensare in questa maniera. Se vi aspettate una cosa, ve ne darò un’altra. Avevamo costruito il nostro gruppo e le nostre aspettative saldamente sull’idea di andare controcorrente e di essere odiati o amati. Nessuna via di mezzo. Sarebbe stato un buon momento per smorzare un po’ quell’atteggiamento da mocciosi contrari per partito preso, per essere gentili con un pubblico che era davvero entusiasta di accoglierci come la next big thing, ma avevo le mie fissazioni, che erano in larga parte un meccanismo di difesa, e non ero pronto a giocare sul sicuro. Quello che non avevo capito era che la nostra versione di “giocare sul sicuro” sarebbe stata comunque ben lontana dal mainstream, e sempre molto provocatoria. La musica, anche se suonata esattamente come nell’album, restava a mille anni luce dal punto in cui si trovava il centro in quel momento.
Al primo album realizzato in sole tre notti, segue nel 1984 Medicine Show con una major che ha invece una gestazione completamente diversa: sono necessari ben cinque mesi, sette giorni su sette, per registrare otto canzoni con una tecnica di taglia e cuci delle infinite sessioni che rende il disco finale estremamente artificioso e distante dal predecessore come sound. Eppure il livello di scrittura dei testi di Wynn è cresciuto e le canzoni buone ci sono eccome, come testimoniato dalle performance live degli anni e decenni successivi. Poi nel 1986 tocca al patinato Out of the Grey e nel 1988 a Ghost Sories che torna a una produzione più consona al suono della band. Nel mezzo non si contano le vicissitudini personali, i tour e i cambi di formazione. Ciò che pone fine alla prima parabola dei Dream Syndicate è però prevalentemente il fatto che Wynn inizia a scrivere dei pezzi più introspettivi, meno rumorosi (come emerge anche dall’ultimo album) e quindi meno adatti alla band, ma piuttosto a una carriera solista.
L’autore è molto onesto, come raramente capita in questi casi, sulle proprie vicende familiari, personali, sugli abusi di sostanze e alcol, su errori e comportamenti e sbagliati. A volte apre delle sliding doors in cui prova a immaginare cosa sarebbe successo “se”; lo fa ad esempio quando prova a raffigurarsi che ritorno di notorietà avrebbero potuto avere i Dream Syndicate se fossero stati ancora sulla scena nel momento in cui è esploso il grunge e il rock è tornato prepotentemente nelle radio e nelle classifiche. Senza farsi sconti, Wynn non cede però mai all’autocommiserazione e cerca di cogliere gli scenari positivi che sono scaturiti da ogni sua scelta, anche se sbagliata. Questo libro lo ha scritto da solo, senza avvalersi di un ghostwriter, sfoggiando una prosa piacevole, precisa e scorrevole, cosa non automatica per chi si esprime normalmente con la forma canzone. L’ultimo motivo per cui Non lo direi se non fosse vero non può mancare nella libreria di un appassionato di rock è che contiene una fucina di giudizi su band e dischi più o meno conosciuti, ma nel dubbio da approfondire.
Yorumlar