3 febbraio 1959. Una data che per molti può non essere ricollegata a un evento preciso, ma che tutti, probabilmente, abbiamo sentito nominare senza saperlo. Era il 1971 quando il cantautore statunitense Don McLean fece uscire uno dei suoi lavori più noti, destinato ad essere riadattato e reinterpretato da numerosi artisti, tra cui, nel 2000, Madonna. Il suo nome è “American Pie” e si tratta di un pezzo di storia americana, non soltanto perché, con quasi 9 minuti, è considerato il brano più lungo della musica leggera e non soltanto perché lo stesso autore dichiarò di avervi voluto rappresentare tutto quello che caratterizzava il suo paese, a partire dal titolo e dallo stereotipo che “non ci sia niente di più americano della torta di mele”.
“American Pie” è un’elegia dedicata al sogno americano, ma anche a quelli che sono diventati alcuni dei suoi incubi: non mancano, infatti, i riferimenti ad alcuni capitoli oscuri del passato degli Stati Uniti come i crimini della Manson Family e alla perdita di leggerezza che iniziò a farsi strada con gli anni ’60, le battaglie politiche, le lotte per i diritti civili e l’apprensione per la guerra in Vietnam. Il pezzo si riferisce più volte anche a quel 3 febbraio, definendolo “The day the music died”, ovvero “Il giorno in cui la musica morì”, perché proprio quel giorno perse la vita uno dei suoi idoli, il cantante Buddy Holly. In quegli anni, benché giovanissimo, Holly era già una star del rock, come anche un altro texano: Jiles Perry Richardson, conosciuto ai più come The Big Bopper. Ritchie Valens, invece, proveniva dalla California, ma era di origine messicana e proprio nella sua lingua, lo spagnolo, aveva cantato l’anno precedente un brano indimenticabile, che ancora oggi balliamo: “La Bamba”.
I tre, insieme ai The Crickets (il gruppo di Holly), a Dion and The Belmonts e a Frankie Sardo, in quel periodo erano impegnati nel Winter Dance Party, una serie di concerti in ventiquattro città del Midwest, che aveva preso avvio il 23 gennaio dalla Million Dollar Ballroom di Milwaukee in Wisconsin e che avrebbe dovuto concludersi il 15 febbraio a Springfield in Illinois. Un tour decisamente impegnativo in località piuttosto distanti tra loro, per raggiungere le quali i musicisti erano stati dotati di un autobus scarsamente equipaggiato, soprattutto per affrontare viaggi lunghi nelle condizioni di maltempo, frequenti in quel periodo dell’anno. Nonostante proprio a causa di problemi al sistema di riscaldamento del bus, alcuni artisti avessero iniziato a manifestare sintomi influenzali e altri problemi di salute, la sera del 2 febbraio, inizialmente libera da impegni, fu pianificata un’esibizione anche alla Surf Ballroom di Clear Lake in Iowa.
Appena arrivati al locale, poiché nevicava, il gruppo ventilò la possibilità di raggiungere la sede del concerto successivo, Moorhead in Minnesota, grazie a un aereo monomotore; Buddy Holly decise allora di contattare un servizio di noleggio e organizzare un volo charter fino al Nord Dakota con destinazione Fargo, poco distante dalla loro meta. Il velivolo era un Beechcraft 35 Bonanza che non poteva ospitare più di tre passeggeri, al costo di trentasei dollari ciascuno: Holly cui spettava di diritto per essere stato lui a rimediare il mezzo, Big Bopper, indebolito dalla febbre e Valens, che si giocò il posto a testa o croce con una moneta lanciata dal disc-jokey della sala da ballo. “Che possiate schiantarvi al suolo con quel trabiccolo!” li apostrofò il chitarrista Waylon Jenning.
I tre vennero accompagnati all’aeroporto Municipale di Madison Airport intorno all’una di notte, ma a pochi minuti dal decollo, presumibilmente a causa della neve, il pilota appena ventunenne Roger Peterson, subito dopo aver raggiunto la massima velocità, perse il controllo e il mezzo precipitò in un campo di granoturco a soli otto chilometri. Don McLean, che aveva tredici anni e cercava di guadagnare qualche dollaro consegnando i giornali, venne a saperlo proprio in quel modo e lo stesso accadde alla giovane moglie di Buddy, Maria Elena Santiago, che a causa dello shock perse il bambino che aspettava. “Posso ancora ricordare come quella musica mi facesse sorridere – scrive il cantautore – ma febbraio mi fece rabbrividire per ogni giornale che consegnavo… non ricordo se piansi quando lessi della sua sposa rimasta vedova, ma qualcosa mi tocco nel profondo, il giorno in cui la musica morì”.
Il sogno di bambino di McLean di diventare un cantante che potesse far ballare le persone e renderle felici, quel giorno parve infrangersi e allontanarsi come una donna inarrivabile, forse proprio la Miss cui nel ritornello rivolge un malinconico “bye-bye”. Non fu così: il ragazzino che consegnava i giornali in bicicletta divenne una delle figure musicali più autorevoli della storia americana, anche se sia lui che molti suoi connazionali, dopo gli accadimenti e le contraddizioni di quegli anni, avevano smesso di credere che tutto fosse possibile. Numerosi suoi colleghi, intanto, rivolsero omaggi più o meno velati ai protagonisti di questa triste vicenda, sia nei loro brani, che in altri riferimenti: è il caso persino dei Beatles, che per il loro nome, che richiama il termine “scarafaggi”, si ispirarono a quello dei Crickets (“i grilli”).
Waylon Jenning si pentì per tutta la vita delle parole rivolte ai suoi amici prima della loro partenza. Dopo il tragico evento che colpì Maria Elena Santiago, gli Stati Uniti vararono la legge che ancora oggi vieta di diffondere i nomi delle vittime degli incidenti prima che ne siano stati avvisati i familiari. Nel 1988, sul luogo dell’incidente venne fatto erigere un monumento commemorativo: una statua in acciaio raffigurante una steel guitar e tre dischi incrociati, ciascuno dei quali riporta i nomi delle tre star del rock. E la Surf Ballroom di Clear Lake, luogo di quell’ultima esibizione, è diventata un museo, ma ospita ancora un ricco calendario di concerti che strizzano l’occhio a quegli iconici anni, tra cui proprio il Winter Dance Party.
Forse non tutti sapevamo, prima di ascoltare una canzone che sembra parlare di una banale torta di mele, che il 3 febbraio 1959 fu il giorno in cui la musica morì. Oggi, anche per noi, quella data è il simbolo della fine dell’innocenza di tutto un popolo.
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