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ASSASSINIO A VENEZIA:LA NOSTRA RECENSIONE

Assassinio a Venezia è il terzo film della trilogia di Poirot con Kenneth Branagh nei panni dell’ispettore belga.

Kenneth Branagh e Michael Green cercano di richiamare delle atmosfere che vanno oltre la tensione del giallo e si avvicinano all’horror. Questa operazione è composta di vari passaggi, non solo quelli volti a proporre una situazione che sembra avere del paranormale. Infatti, oltre alla presenza della seduta spiritica, la razionalità stessa dell’ispettore Poirot viene messa a dura prova, attraverso delle allucinazioni visive.

L’ambientazione, inoltre, gioca in ruolo fondamentale nella costruzione di un clima cupo, freddo, suggestivo. Il film, come il titolo d’altro canto suggerisce, è ambientato a Venezia, e si svolge in un palazzo fatiscente, ma in decadimento. Questo connubio fa sì che questo luogo assorba tutte le caratteristiche della tipica casa infestata. Per di più, tutta l’investigazione si svolge durante la notte a cavallo tra Halloween e Ognissanti. Questo dettaglio enfatizza ancora di più i canoni dell’horror che questo giallo utilizza per incalzare la sua narrazione.


Kenneth Branagh in Assassinio a Venezia

Nonostante si sia ispirato al libro Poirot e la strage degli innocenti (Halloween Party, in originale), assieme a tratti presi dai racconti de L'ultima seduta spiritica, entrambi scritti da Agatha Christie, non segue veramente nessuna delle due trame.

Innanzitutto, lo stesso personaggio di Poirot in questo lungometraggio acquista delle sfumature che a quanto mi risulta tra libri, racconti, serie TV e film precedenti non aveva mai avuto. Ci troviamo di fronte a un Poirot con una sorta di crisi d’identità. Crisi d’identità in riferimento al fatto che la storia inizia con il personaggio che ha abbandonato la via dell’investigazione, a favore di un tranquillo scorrere del tempo. L’ispettore a cui siamo abituati incapace di mettere a tacere la propria materia grigia e la propria curiosità, ritrovandosi così sempre al centro dell’indagine dei delitti più disparati con cui viene a contatto; in questa pellicola lo troviamo privo della sua tipica verve, poco stimolato nella ricerca della verità, incapace di ritrovare se stesso. La crisi già in corso e presente durante questa indagine, si mischia a queste allucinazioni che lui all’interno della casa inizia ad avere. Sembra quasi che il personaggio ricerchi in questa indagine una sorta di fede verso qualcosa che vada oltre la ragione, finendo invece per ritrovare se stesso.

Oltretutto ritornando alla trama e all’ispirazione di questo film, devo dire che secondo me si distacca molto dal libro e dal racconto da cui trae ispirazione, quindi si potrebbe davvero dire liberamente ispirato. Oltre al cambio totale di ambientazione, dalle campagne inglesi a Venezia, al cambio di storia e di personaggi, a parte la presenza di un personaggio che mantiene la sua fisionomia dall’opera letteraria, [Ariadne Oliver], l’unico vero richiamo sta proprio nell’espressione strage degli innocenti. Il motivo chiaro a chi ha visto il film, rende la pellicola un incessante mattatoio. Gli omicidi sono molteplici e si susseguono uno dietro l’altro non sapendo non solo quando termineranno, ma anche accorciando man mano la lista dei sospettati. La scelta, già nota nei gialli della scrittrice britannica, fa sì che lo spettatore sia più incentivato a scoprire chi sia il colpevole, rischiando di vedere morire il suo sospettato e di dover cambiare idea e punto di vista.


Un grande pregio l’ambientazione. Venezia è magica, permette di entrare in una dimensione che sfiora sempre l’irreale. Soprattutto per chi a Venezia non è abituato. Questa scelta permette di creare una situazione in un contesto meno classico, forse in qualche modo quasi esotico, che rafforza la parte visiva del film.

La cosa che forse mi ha più perplessa, e parlo da persona che abita nel veneziano, credo sia derivata dalla presenza di una cantina segreta nell’edificio. Questa cosa la dico perché le case veneziane non dovrebbero di norma disporre di cantine in quanto sotto di esse vi è la laguna.


Un’altra cosa che forse ho poco apprezzato è stato un cambiamento, sempre nel personaggio di Poirot, relativo al fatto spesso ribadito che lui non abbia amici.

Questo viene fatto per sottolineare la solitudine di cui è preda, ma anche a come sia isolato dal contatto e dal rapporto umano. Forse memore da recenti riletture e anche un recente rewatch della serie, con David Suchet, non ho mai riscontrato nel personaggio questo aspetto. Ho pensato che la cosa mi abbia disturbato perché i legami e i contatti che intessono ì personaggio di Agata Christie sono una delle caratteristiche che ho sempre più apprezzato.

Nonostante ciò che posso preferire, magari da tradizionalista legata al personaggio originale, il Poirot di Kenneth Branagh è una figura ricca di sfumature e punti ciechi, un personaggio che non solo indaga l’animo umano degli altri, ma anche il suo. Soprattuto in questo film.


Ho trovato il film davvero gradevole, benché diverso da ciò che ci si aspetta dai libri della scrittrice Agatha Christie, questa deviazione, come ampiamente spiegato precedentemente, in chiave horror, ci permette di indagare una storia nella quale i fantasmi si rivelano essere le nostre paure. E se i fantasmi rappresentano ciò che abbiamo di irrisolto, questa narrazione che ci viene propost di un Poirot smarrito e solo, ci mostra sia la potenza della razionalità, quando quella dell’irrazionale. Ognuno di noi è alla ricerca di una fede.


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