Il mito della Nazione: sangue che diventa sentimento
- Antonio Cinque

- 21 ore fa
- Tempo di lettura: 3 min
La nascita di una nazione è spesso raccontata come un abbraccio tra popoli fratelli, un incontro di culture che si fondono in nome di un ideale comune. Ma osservando più da vicino la verità storica, scopriamo una realtà molto più complessa.

Prendiamo due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti d’America: l’Italia non è nata da un accordo d’amore tra il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie, così come gli Stati Uniti non sono nati da una pacifica stretta di mano con le popolazioni native o con le colonie riluttanti. Entrambi sono nati dal sangue: guerre, annessioni forzate, sottomissioni, conquiste.
Il Risorgimento italiano è stato, in larga parte, una guerra di espansione piemontese travestita da unificazione nazionale. La Guerra di Secessione americana ha sancito con la violenza l’unità di uno Stato diviso su schiavitù ed economia. Eppure, con il passare delle generazioni, la memoria collettiva ha rimosso l’orrore e la brutalità originaria. Le cicatrici sono state coperte da racconti di “fratellanza”, di “valori condivisi”, di “destino comune”.
Ma questo processo di riscrittura non è solo propaganda: è un bisogno umano. Le nuove generazioni, che non hanno vissuto la violenza fondativa, cercano simboli positivi in cui riconoscersi. Trasformano la conquista in liberazione, l'annessione in unione, la guerra in nascita.
È così che il sangue diventa sentimento.
Tutti le nazioni hanno un mito fondativo. La differenza è che dietro il mito c’è sempre una realtà più scomoda: la forza che piega, la vittoria che impone, la storia scritta dai vincitori. Ma senza questo mito, la nazione non può esistere. La memoria selettiva è il collante invisibile che tiene insieme, nel tempo, ciò che in origine si era unito col ferro e con il fuoco.
In queta logica, la storia viene filtrata, edulcorata, riscritta nei manuali scolastici e nei discorsi pubblici. Si celebrano le date simboliche, si innalzano eroi nazionali, si omettono le pagine scomode. L’Unità d’Italia diventa “Risorgimento” nel senso di rinascita morale, oscurando il fatto che intere regioni furono sottomesse con la forza. La Guerra Civile americana viene riletta come la “grande battaglia per la libertà”, pur essendo stata una guerra civile sanguinosa e fratricida.
Ma questa rimozione non è solo inganno: serve a costruire un’identità condivisa. Serve a dare un senso di appartenenza. Le ferite non possono restare sempre aperte. A lungo andare, i popoli hanno bisogno di sentirsi parte di una storia positiva, di una narrazione che li unisce. Ed è proprio questa capacità di trasformare la violenza in mito fondativo che permette alle nazioni di esistere nel tempo.
La verità storica, però, resta lì, pronta a riaffiorare. Ogni volta che una crisi politica, sociale o culturale riapre le vecchie fratture, il “sangue” della nascita torna a farsi sentire sotto il “sentimento” della memoria. È allora che ricordare diventa necessario. Non per cancellare la nazione, ma per capirne davvero le radici.
Infatti, solo riconoscendo il sangue che l’ha generata, una nazione può dare vero significato al sentimento che la tiene in vita.
La comprensione della nazione come costruzione simbolica, che trasforma la violenza fondativa in sentimento identitario, si deve a opere fondamentali. Benedict Anderson, con Comunità immaginate (1983), ha spiegato come le nazioni nascano da processi culturali che reinterpretano guerre e conquiste come miti di coesione.
Eric J. Hobsbawm, in Nazioni e nazionalismo dal 1780 (1990), ha mostrato come le tradizioni nazionali siano spesso “inventate” a posteriori per legittimare unità nate nel conflitto. Già nell’Ottocento, Ernest Renan con il suo celebre Che cos’è una nazione? (1882), sottolineava che la nazione si fonda tanto sull’oblio delle divisioni quanto sul ricordo condiviso del sacrificio.
Ad oggi, l’idea di una “nazione europea” che possa nascere da spontanei accordi a tavolino, ignora la lezione della storia: nessuna vera nazione nasce senza sacrifici condivisi e senza un'identità forgiata nel conflitto. Le nuove generazioni, cresciute nella pace e nella comodità dell’Unione Europea, si illudono che basti un passaporto comune per sentirsi “popolo”. Ma quale lingua parlerebbero? Quali costumi adotterebbero come propri? Chi deciderebbe strategie militari e politiche, senza una vera e identitaria visione comune? È importante ricordare che senza una memoria collettiva di lotte e appartenenza, l’Europa resta un’alleanza di interessi, non una nazione. La storia insegna che le nazioni nascono dal sangue e si consolidano nel sentimento, non dalle firme sui trattati. Illudersi del contrario è tanto ingenuo quanto pericoloso.


Commenti