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STORIE CHE ACCADONO DI ROBERTO FERRUCCI

Aggiornamento: 15 ago

Storie che accadono è: il tram 28, Lisbona, ma anche Venezia, Parigi, Vecchiano, l’amicizia tra tre scrittori, l’affetto e la stima, i ricordi, le coincidenze. E poi è un ritratto, diretto e forse per questo ancora più forte, in movimento, come il tram dentro cui si snoda tutta la narrazione, della persona di Antonio Tabucchi per Roberto Ferrucci.

Noi ci spostiamo insieme all’autore che si fa io narrante e ci guida non solo attraverso le fermate di questa icona di turismo di massa che è il tram 28, ma soprattutto attraverso le fermate della memoria. Lui che a Lisbona non era mai stato, nonostante le tante volte in cui Tabucchi lo sollecitava ad andarlo a trovare, ci si trova solo ora dopo la morte dell’amico. In queste pagine Ferrucci ci vivere un luogo di cui aveva solo letto e sentito parlare, un posto inedito che, con uno sguardo di stupore e un po’ di rimpianto, si pente di non aver visitato prima.

Il viaggio è compiuto insieme a Tirsa, la sua compagna, unica vera presenza femminile che lo accompagna. Una figura che nulla ha a che vedere con la scrittura o la letteratura, ma che riesce a rimanere grande, nella sua semplicità, nonostante Ferrucci la racconti insieme a due giganti come Tabucchi e Del Giudice. Tirsa è la quotidianità, e durante il viaggio sempre presente, in modo amorevole e comprensivo, si incastra nelle pieghe della narrazione non risultando mai invadente, ma anzi accompagnando il protagonista alle volte troppo raggomitolato nei suoi pensieri persino per guardare fuori dal finestrino del tram.

Le persone di Ferrucci, che emergono in queste pagine, sono vivide e l’io narrante che le racconta è un personaggio umano, fragile, a tratti tormentato. Accanto a Tabucchi e Del Giudice si sente piccolo, vicino ai suoi maestri si sente di avere ancora molto da imparare, nonostante lui a sua volta si sia fatto maestro. Ferrucci ha scelto i propri punti di riferimento, lo ha fatto prima tramite la tesi di laurea, in cui ha deciso di parlare proprio di Tabucchi e Del Giudice. Poi quello che doveva essere un lavoro solo accademico si è tramutato in un’amicizia, sincera e protratta nel tempo, che lo ha arricchito e nutrito nel corso degli anni, anche ora che entrambi sono morti. Ferrucci che insegna da anni scrittura creativa all’Università di Padova in bibliografia non fa mai mancare i testi di questi due autori.

La stima che l’autore mostra man mano che riporta i suoi incontri con Tabucchi ci lascia stupiti di fronte alla sfaccettata ricchezza dei confronti, non solo letterari, che Ferrucci ha con Tabucchi. Lo scrittore toscano è un intellettuale che ha segnato la sua generazione, non lo ha fatto solo tramite la scrittura, ma soprattutto tramite il suo pensiero e modo di vedere il mondo, di schierarsi, di esprimere la propria opinione. Il Tabucchi di Ferrucci è un uomo con il quale ognuno di noi potrebbe sedersi a prendere un caffè sapendo di non finire mai per annoiarsi, qualcuno da cui potremmo sempre imparare, dalla grande umanità e simpatia.

La scrittura, o forse sarebbe meglio chiamarla narrazione, permea tutto il testo, si insinua con eleganza e naturalezza in ogni discorso, in un intreccio che si snoda tra più fronti. L’autore crea un dialogo, tra le sue descrizioni e i testi di Tabucchi, tramite citazioni in corsivo che si inseriscono come parte integrante e necessaria per raccontare non solo l’uomo, ma anche lo scrittore, proprio mediante le parole dei suoi libri. La relazione dei due personaggi con la scrittura la ritroviamo anche nei dialoghi tra loro, nei confronti sugli articoli e le situazioni politiche che vivono, nell’intervista che Ferrucci fa a Tabucchi. Per chi ama il processo creativo e tenere una penna tra le mani alcune pagine sono un balsamo, una rassicurazione, un confronto con le difficoltà e le soddisfazioni di un mestiere che porta con sé una grande fatica. Interessante è anche entrare all’interno della ritualità della scrittura di Tabucchi, i suoi taccuini, la sua grafia minuta e veloce, il suo preferire la penna a una tastiera del computer, il flusso delle sue stesure e le sue rare correzioni, per poi arrivare ai titoli e sottotitoli dei suoi romanzi e raccolte di racconti. Questo libro è un’immersione tra due mondi che si incontrano, due persone, due narratori, parla di ciò che rimane, come dice l’autore stesso: Perché, se di tutto resta un poco, spesso, a volte, quel poco basta e avanza. E a me rimane l’affetto dei gesti di Tabucchi, dalla pacca sulla spalla che non può mai mancare, al suo continuo incitare l’amico a scrivere. Un gesto quest’ultimo che Ferrucci ora riserva ai suoi studenti, come un passaggio di testimone. Ferrucci scrive, lo fa ogni giorno, un rito, una necessità, ma pubblica con una frequenza dilatata. Forse però le cose non accadono per caso, e l’uscita di questo libro, capita, non volontariamente, con una coincidenza quasi tabucchiana, proprio l’anno del decimo anniversario della morte di Tabucchi.

Anche la fotografia ha un suo spazio in questo libro, che termina proprio con una foto completamente in controluce di Tabucchi e Del Giudice. Ferrucci parla anche dell’unica che ha con Tabucchi, uno scatto rubato, senza posa, di cui cerca di recuperare la storia, i dettagli. Ci sono anche le foto a Lisbona, quelle che fa e quelle che decide di non fare, alle volte perché non necessarie, altre perché si rende conto che una foto non può davvero racchiudere la bellezza di un posto, i suoi colori, le sfumature e l’impatto che ha quel luogo nel momento in cui lo stai vivendo. Forse perché l’autore, con la sua predilezione per le foto in bianco e nero, sa che non potrebbero mai rendere la vera anima di Lisbona, calda, viva e colorata.

Ferrucci racconta non solo ciò che ci lasciano i libri, ma anche ciò che ci lasciano le persone e come la realtà sia forse più narrativa dell’invenzione. Trasforma il suo Tabucchi, amico e maestro, in una storia, che sale e scende dal tram 28.


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