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APPUNTI SU L’IMMENSITÀ DI E. CRIALESE: CIÒ CHE RENDE GRANDI

“Giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”.

È quello che fa Emanuele Crialese con un film che è fatto di ricordi. I suoi.

E il tempo, si sa, altera la memoria, fino a sottrarre particolari, fino a comporre nuovi versi. I ricordi, non solo i sogni, sono spesso desideri.

L’immensità racconta la storia di una famiglia nella Roma degli anni Settanta, in cui padre e madre ormai non si amano più ma non si separano; la protagonista che la macchina da presa osserva più da vicino è Adriana, la prima di tre figli, una dodicenne che sa di essere nel corpo sbagliato, e perciò si fa chiamare Andrea.

La battaglia di Adriana, anzi, di Andrea, in L’immensità, è soprattutto il ricordo della lotta del regista, anch’egli transgender, che, attraverso gli occhi della reminiscenza, diventa poesia.

Una lotta che tuttavia rimane viva, acuta, tagliente.

I versi di questa poesia non tradiscono il dolore di quegli anni, piuttosto lo edulcorano, ma è un atto di sopravvivenza, si addolcisce il passato per evitare di pensare che in quegli anni trascorsi si è rischiato di marcire. Andrea fa lo stesso, immagina e spera per non soccombere: disegna una stella con i fili dei pali sul tetto, mangia una quantità esorbitante di ostie, canta Prisencolinensinainciusol, corre tra i canneti, finge di guidare la carcassa di un’automobile assieme alla bambina che ama, mentre le spiega di voler diventare un pilota o un astronauta.

Rivolge sempre le sue preghiere al cielo, sperando di rintracciare l’universo diverso a cui pensa di appartenere.

In terra, quest’ultime vengono bruciate, sono parole che si accartocciano, incenerite dagli occhi di Clara, una madre incredibilmente bella e infelice, tuttavia l’unica a cui Andrea perdona l’ostacolo di non poter diventare chi sa di essere.

Ora la donna non capisce, ma poi capirà.

E allora, nel frattempo, Andrea si preoccupa che ella sopravviva, alle mani di un padre e di un marito che non sanno accarezzare, a una vita che non sempre dà quello che si chiede, alla borghesia aspra e giudicante. Perché madre e figlio litigano, ma non si abbandonano. Si difendono, e sono uno contro tutti, tutti contro uno.

Come non commuoversi guardandoli mentre sfrecciano per le vie di Roma fingendo di avere fretta, urlando perché gli altri li lascino passare: sono corpi che corrono verso la libertà, che sembra avvicinarsi in quegli attimi in cui non hanno più paura.

La regia di Crialese restituisce campi lunghi in cui gli esseri umani scorrazzano ribelli e indipendenti, i colori caldi degli anni Settanta italiani, primi, primissimi piani di Clara, interpretata dall’attrice spagnola per eccellenza (in una delle sequenze iniziali del film, osserviamo già da vicino Penélope Cruz mentre si trucca, a guardarla solo Andrea, che indaga e la apostrofa: “Di solito quando ti trucchi o esci o hai pianto”).

La figlia, futuro figlio, ama la madre, è un idolo, una diva in bianco e nero, eppure le rimprovera questa sua perenne inquietudine, l’incertezza dei suoi passi, i quali sembra sempre che stiano per annunciare una caduta.

E la madre cade, un giorno, dopo un incendio che è una goccia che fa traboccare il vaso di lacrime.

Però poi Andrea, accompagnato dal padre e dai fratelli, va a riprendere la madre nella Clinica di Salute Mentale in cui la donna trascorre qualche mese: giunte le vacanze di Carnevale, i bambini in costume la accolgono con i coriandoli, la vera festa è il ritorno della donna che forse ha finalmente rimesso assieme i pezzi.

Clara ha bisogno di coprirsi gli occhi tristi, quando Andrea le sfila gli occhiali da sole lei decide di usare la maschera del figlio, vestito da Zorro. È una preghiera che Andrea accoglie con un sorriso, va bene così, la madre è viva e ha la forza di battere le mani esclamando: “Feliz Carnaval!”, basta quello per ora.

Crialese non realizza un film indiscutibile, la sceneggiatura e la messa in scena si colorano di una patina che rischia di corroborare il realismo del lungometraggio, l’oggettiva concretezza che ciò che viene mostrato possa accadere, e perciò lede la credibilità e la fiducia dello spettatore.

Talvolta egli, nel matrimonio che allaccia con le immagini e le figure della storia, può essere portato a pensare che sia tutto troppo perfetto, sia nella gioia che nel dolore, nella salute e nella malattia. Il film del regista romano o lo ami o lo odi.

Io ho deciso di amarlo. O meglio, a me è capitato di amarlo, perché non ho certo scelto di finire il pacchetto di fazzoletti che avevo con me al cinema.

D’altronde l’arte va giudicata anche, e soprattutto, con la pancia. E Crialese domanda il cuore.

È vero, Penélope Cruz porta sulle spalle la responsabilità di rappresentare il personaggio più interessante della storia, perciò è innegabile che sia anche la sua interpretazione attoriale a contribuire alla bellezza del lungometraggio; impossibile non aver desiderato di essere su quello stesso prato su cui lei danza sventolando la pompa dell’acqua, dopo una marachella dei figli suoi e degli amici: la donna, che scherza bagnando i presenti per alleggerire la tensione, improvvisamente si astrae, diviene altro, forse una driade, forse una strega, i co-protagonisti diventano lontani, insignificanti, banali, e lei è irraggiungibile, eterna.

È Andrea a richiamarla, a intimarle di smettere, a riportarla sulla terra: il figlio ha un tono duro, seccato, ha paura della distanza che la madre sa insinuare tra lei e il mondo, teme gli sguardi accusatori e invidiosi delle altre donne nei confronti di Clara.

Andrea ha paura che quest’ultima, che si infila sotto i tavoli durante il cenone di Natale per giocare assieme ai figli, prendendo in giro la compostezza e la serietà adulte, ritorni bambina, e smetta di essere madre, scudo, culla.

I protagonisti del lungometraggio sono esseri umani traballanti, che sfogano la rabbia e la delusione di un’attesa tanto lunga per la felicità.

I fratelli di Andrea, Gino e Diana, sono complementari e opposti, ma entrambi più piccoli e più atterriti dalle ingiustizie che ruotano loro attorno.

Diana nella prima scena del film gioca in una bacinella d’acqua, immergendo Barbie fastidiosamente di plastica che, spettrali, sembrano quasi suggerire che la loro vita da bambole, seppur passiva e violenta, sia anche quella più semplice.

Diana disegna con il cibo barche e fiori adatte ad una fiaba, lo accarezza pur di non infilarselo in bocca, mentre Gino, al contrario, ingurgita ogni cosa, e caga sui tappeti di casa per avvertire che non potrà seppellire tutto nel suo stomaco per sempre.

Andrea protegge anche loro due, è quello più arrabbiato, quello più grande, li cresce come un bambino può crescere altri due bambini, con fantasia e verità, li esorta a fare prove di coraggio rinchiudendosi insieme dentro l’armadio, al buio, per “conquistare i superpoteri” che poi li aiuteranno ad affrontare la vita reale.

Si salvi chi può, o ci si salvi come si può.

Sara, la ragazzina di cui Andrea si innamora, è figlia di operai, vive nelle catapecchie di un campo, ha l’agilità di una ginnasta, la magia di una circense, danza attorno al fuoco con Andrea, si nasconde dietro alle colonne, sparisce, lo guarda e lo riconosce, è una gitana della periferia romana, conosce gli incantesimi per stare bene.

Andrea ne rimane affascinato anche perché rivede in lei la stessa libertà che caratterizza sua madre, lo stesso slancio verso le stelle, che comunque rimangono sempre troppo in alto.

L’immensità distrugge per poi guarire. È la cura per il suo regista, un abbraccio per tutti gli Andrea e le Clara del mondo.

Non si può amare L’immensità senza avere dentro di sé la malinconia di una perdita e la fatica di una conquista.

E poi, oltre a tutto ciò, ci sono i tributi al panorama musicale italiano di quegli anni, alle voci di Raffaella Carrà, Johnny Dorelli, Patty Pravo. E allora, davanti a questo film, non si può far altro che inchinarsi, al cospetto di grandi donne, di grande musica, di grandi vite.


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