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GUERRILLA GIRLS: LE ARTISTE GORRILLA

Aggiornamento: 15 ago

"Chi fa più paura? Un gorilla o le donne?”

Le Guerrilla Girls è un gruppo di artiste-attiviste anonime che hanno dedicato la loro carriera artistica alla lotta alle discriminazioni di genere, sessismo e razzismo all’interno del mondo dell’arte.

Formatosi a New York nel 1985 on la missione di mettere a fuoco la disuguaglianza razziale e di genere all’interno della comunità artistica.

L’idea venne nel 1984, quando il MoMa inaugurò una mostra dal titolo An International Survey of Painting and Sculpture avente lo scopo di esporre tutti gli artisti più importanti in quel periodo. Nella lista degli artisti, però, dei 169 artisti selezionati solo 13 erano donne e nessuna di essere donne nere.

Quest’ingiusta disparità diede l’impulso ad un gruppo di sette donne di unirsi e combattere dall’interno la discriminazione sessista e razionale.

Le Guerrilla raccontano l’esordio così:


“Il 14 giugno 1984 siamo andati a una protesta davanti al Museo d’Arte Moderna dove c’era una retrospettiva di 169 artisti, con solo 13 donne e ancor meno artisti di colore. Siamo rimasti scioccati che nessuno dei visitatori del museo sembrava interessarsene! Questo è stato il “AHA! Moment”. Ci doveva essere un modo migliore – un modo più contemporaneo, creativo – di sfondare la credenza popolare che i musei hanno sempre saputo meglio e non c’era alcuna discriminazione nel mondo dell’arte. Abbiamo avuto l’idea di fare i manifesti di strada, trovammo insieme alcuni amici circa 9 mesi dopo […] e ci siamo chiamate le Guerrilla Girls. Quei primi manifesti hanno dato avvio ad una discussione pubblica che è ancora in corso. Ne hanno portato centinaia di più, non solo di arte, ma anche di cinema, politica e cultura pop. Il nostro tipo di attivismo pazzo (usando fatti e umorismo) è diventato un modello per centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo che vogliono usare la loro creatività per combattere per le questioni a cui tengono”.

Fu così che nacquero le Guerrilla Girls, l’idea iniziale era di indossare dei passamontagna, ma dopo che una di loro si sbagliò a scrivere su un manifesto confondendo la parola guerrilla con gorilla, decisero di indossare maschere di gorilla. Oltre alle maschere, mantengono l’anonimato dandosi nomi di artiste del passato come Tina Modotti, Frida Khalo, Anais Nin.


La loro attività non si ferma di certo agli anni Ottanta, ma si allarga a mano a mano per tutto il paese negli anni raggiungendo soprattutto il coinvolgimento di “succursali” in numerose città statunitensi.

Durante gli anni Novanta il loro dibattito si amplierà dal mondo dell’arte al mondo cinematografico fino ad arrivare alla letteratura, sottolineando gli stereotipi del mondo artistico fino ad esprimere un’aspra critica al sistema cinematografico hollywoodiano.


Non dipingono né scolpiscono, la loro arte si espande nelle strade, è pura arte di protesta espressa attraverso il linguaggio della pubblicità, poster, giornali, libri.


“Siamo femministe vendicatrici mascherate nella tradizione degli anonimi benefattori come Robin Hood, Wonder Woman e Batman. Come esponiamo il sessismo, il razzismo e la corruzione nella politica, arte, cinema e cultura pop? Con i fatti, umorismo e le immagini oltraggiose. Vi sveliamo la sottostoria, il sottotesto, il trascurato, e il decisamente ingiusto […]. Potremmo essere chiunque; siamo ovunque”.

I loro contenuti sono pieni di statistiche e numeri, un modo a detta delle artiste stesse, di attirare l’attenzione delle persone.

È attraverso i numeri che sparisce la possibilità di negazione dei fatti da parte di un sistema patriarcale e maschilista.

Le parole restano parole, ma i numeri e le percentuali pongono lo spettatore di fronte ad una analisi precisa e dettagliata della realtà.


Durante i primi anni di attività, le Guerrilla Girls condussero “weenie counts”, in modo che i membri visitassero istituzioni artistiche come il Metropolitan Museum of Art e analizzassero in rapporto i soggetti maschili e femminili delle opere d’arte.

I dati raccolti dalle collezioni pubbliche del MET nel 1989 mostravano che le donne artiste avevano prodotto meno del 5% delle opere nel dipartimento di arte moderna, mentre l’85% dei nudi erano donne.

Era evidente che la presenza femminile nei musei fosse dovuta esclusivamente alla nudità, alla rappresentazione del corpo e non dalla presenza come artiste.


Nacque così il loro manifesto più famoso: Do Women Have To Be Naked To Get Into The Met.

Museum? (1989):

l’immagine ritratta è ispirata al famoso dipinto La Grande Odalisque (1814) di Jean-Auguste-Dominique Ingres alla quale fanno indossare la maschera da gorilla.

“Le donne devono essere sempre nude per entrare nei musei?” questa è la provocazione del manifesto chiara allusione alle poche “quote rosa” tra gli artisti, ma il numero elevatissimo di nudi presenti in ogni mostra o museo.

Infatti oltre alla domanda provocatoria il testo sul manifesto presenta delle statistiche che evidenziano: che meno del 4% dei lavori esposti è di un’artista donna ed il 76% dei nudi presenti nelle opere ha per soggetto il corpo femminile.


Nel 2006 hanno presentato un video che sottolineava le disuguaglianze e la totale assenza di diversità presso il Minneapolis Istitute of Art. Non soddisfatte hanno creato un poster nel quale denunciano la sempre più prepotente pressione esercitata dai collezionisti miliardari.

Nel 2001 il gruppo si è separato in tre indipendenti entità: Guerrilla Girls, Inc., una continuazione del gruppo originale (http://www.guerrillagirls.com/ ), GuerrillaGirlsBroadBand, orientate più sui media digitali (http://www.ggbb.org/ ) e Guerrilla Girls On Tour, un collettivo teatrale itinerante (http://guerrillagirlsontour.com/).


Al Tate Modern hanno, poi, creato uno spazio il Guerrilla Girls Complaints Department, nel quale i visitatori possono esternare qualsiasi problematica stia loro a cuore, comprese le aspre critiche al museo in questione.


La loro attività dura da almeno 30 anni, e sarebbe bello pensare che a distanza di anni la lotta al patriarcato delle Guerrilla Girls si possa ritenere “cosa vecchia”.

La rivoluzione abbracciata da queste attiviste dovrebbe essere vista come un pezzo di storia da dimenticare, una vittoria da celebrare, ma è chiaro che ci sia ancora molto casino da dover fare.


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