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Il Pop non è la Pop Art. Ma Warhol è la Pop Art.

Il pop non è la Pop Art. La Pop Art è l’espressione alta, highbrow, di una sensibilità più generalizzata che negli anni ‘50 la maggior parte degli interpreti chiamava “cultura di massa” e che un gruppo di intellettuali inglesi, The Indipendent Group, iniziò a denominare “pop art”.

La loro prima intuizione fu di accordare ai prodotti culturali di consumo la stessa validità di quelli della cultura alta, ma questa operazione implicò una riconsiderazione globale di ciò che si intendeva con il termine “arte”.

L’uso dell’ aggettivo “pop” divenne così la chiave. La soluzione. Ebbe inizio una radiografia estensiva dell’arte di massa che condusse ad una prima grande sintesi ovvero: “ciò che distingue l’arte di massa da quella alta è la sua consumabilità, l’expendability". Questo permise di comprendere come il pop, che stava definendosi tale, era inevitabilmente inscritto nella logica del capitalismo industriale. L’americanizzazione del mondo occidentale in quegli anni trovò nel consumismo anche l’estetica.

Più che di una vera e propria cultura, si trattava di una datità storica che si stava culturalizzando dal basso. Così il libro di Warhol del 1980 catapultò dalle restrizioni dell’epoca vittoriana alle infinite e indefinite possibilità del futuro. La pop art passa in un decennio dall’ essere oggetto di argomentazioni all’essere realtà ‘ormai’ scontata. Per i baby boomers del dopoguerra realtà è pop si equivalevano. Come diceva Warhol, per questa generazione, il pop non era una scelta né un problema, bensì l’unica realtà che conoscevano.

E ancora oggi ogni volta che sfogliamo riviste di moda patinate e apprezziamo soluzioni grafiche di pubblicità, ogni volta che ci ammarriamo nell’ estetica dei reality show, che ci sentiamo più giovani: in quei momenti si fa viva la profondissima eredità di Andy Warhol.

Uno dei suoi “ritratti” più attendibili ci viene da Robert Rauschenberg che lo descrive così: “nella sua breve vita è riuscito a passare dal mutismo alla creazione di una rete di comunicazione universale. Celebre com’era, fu capace di controllare, al pari della sua ombra, la propria grandezza”. L’enigma warholiano consiste proprio per eccellenza nel passaggio da questo mutismo all’ingresso nel cuore del network della comunicazione novecentesca. L’arte di Warhol riporta continuamente alla ribalta il dilemma che è alla base di ogni classicismo: la mimesis. Il nodo della rappresentazione, l’ipotesi, o meglio la prassi, attiva dalla grecità in poi, di illustrare il reale attraverso un medium. Warhol infatti non è mai stato un teologo dell’immagine. L’iconicità del bello doveva essere per lui mediata da qualcos’altro. Fu a questo punto che la sua estetica creò una circolarità riscontrabile in tutte le sue manifestazioni. Al bello ideale si accostò l’ipotesi che il bello reale ovvero quello naturale, fosse deficitario, effimero, insufficiente. L’artificio fu la soluzione. La sua lotta per rendere decisiva la comprensione del bello novecentesco è l’idea del sempre uguale contro la realtà del sempre mutevole. Di fatto la conflittualità che sostanzia ogni classicismo. Tuttavia la bellezza naturale per l’uomo, essendo transitoria, ha un proprio momento di esistenza: è quel momento che va catturato e al quale bisogna essere sempre fedeli. La bellezza si distribuisce nelle persone, in una pura logica di democrazia pop, in fasi diverse della vita o in parti diverse del corpo. Una bellezza in fotografia diversa da una bellezza dal vero.

“E’ difficile essere dei modelli perché si vorrebbe essere come si viene in fotografia, ma ciò non è possibile. E così si comincia a copiare la fotografia.”


Un’intera estetica in quattro righe: temporary condition, what you really look like, good picture you want.


Oggi che tutte le profezie di Andy Warhol si sono avverate, in che punto delle nostre vite notiamo quella linea che scinde il pop dal quotidiano?


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