La “House of dynamite” globale: sicurezza, identità e fragilità delle democrazie
- Antonio Cinque

- 4 giorni fa
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Il film “A House of Dynamite” di Kathryn Bigelow mette in scena, con lucidità inquietante, le fragilità del sistema difensivo americano e l’illusione di sicurezza: il pericolo può arrivare improvviso, cogliendo completamente alla sprovvista anche le potenze più avanzate. La difesa, per quanto sofisticata, resta sempre un equilibrio precario tra ciò che possiamo prevedere e tutto ciò che inevitabilmente sfugge al controllo.

Da questa constatazione emerge un tema centrale: nelle democrazie moderne la questione della risposta atomica non può più essere ignorata. Non si tratta di pianificare aggressioni, ma di confrontarsi con la deterrenza come espressione della propria identità nazionale e della percezione di sicurezza. La logica della deterrenza, spiegata da Thomas Schelling in “Arms and Influence” (1966), mostra che la stabilità regge solo se la paura condivisa della distruzione è reale e reciprocamente credibile. Il film, con la tensione e l’incertezza che permeano le sue sequenze iniziali, rende visibile questa fragilità: l’equilibrio nucleare è sospeso su linee invisibili e vulnerabile a qualsiasi errore di calcolo.
Ed è proprio questo che ci porta a chiederci: siamo davvero sicuri che la minaccia principale alla nostra civiltà provenga dall’esterno? Il film suggerisce il contrario. Abbiamo delegato la nostra sicurezza quasi esclusivamente alla tecnologia, ai sistemi di intelligence e al predominio nucleare, convinti che questi strumenti possano proteggerci da tutto. Ma come evidenzia Noam Chomsky in “Hegemony or Survival” (2003), questa fiducia assoluta è anche una forma di autoinganno: il vero pericolo nasce quando si crede che il potere militare e tecnologico sia una panacea, mentre la complessità del mondo reale resta fuori, pronta a colpirci dove siamo più vulnerabili.
L’11 settembre ne è l’esempio più lampante: non fu un nemico convenzionale a minacciare gli Stati Uniti, ma attori imprevedibili che sfruttarono la rigidità dei sistemi, colpendo esattamente dove la società si sentiva più sicura. Oggi, allo stesso modo, un Paese può essere messo in ginocchio da un cyberattacco, dal sabotaggio di infrastrutture strategiche o da campagne di disinformazione, strumenti in grado di destabilizzare una democrazia più di qualsiasi esercito convenzionale. La forza militare, se non supportata da unità e coesione sociale, si rivela insufficiente: il film lo mostra con chiarezza simbolica, e la storia recente lo conferma
In questo contesto, il mondo appare come una vera e propria “house of dynamite”: un sistema globale saturo di tensioni, dove basta una scintilla — militare, informatica o economica — per far vacillare equilibri che riteniamo solidi. La percezione collettiva di sicurezza è fuorviante: ci convince che il rischio sia delegabile, che basti la tecnologia a proteggerci, mentre ogni nostra illusione genera nuove vulnerabilità. Come osserva Nassim Nicholas Taleb in “The Black Swan” (2007), i sistemi complessi collassano spesso proprio quando si è più convinti della loro stabilità. Non vedere i rischi significa non saperli gestire, e la fragilità diventa così il vero nemico.
Ma non si tratta solo di paura o di fragilità tecnologica: c’è un rischio più profondo, culturale e politico. La sicurezza delegata spinge le società a trascurare la partecipazione civica, la memoria storica e la consapevolezza del proprio ruolo nel mondo. La protezione diventa un fatto astratto, affidato a sistemi esterni, mentre la responsabilità individuale e collettiva si atrofizza. Pensare di delegare la propria sicurezza è una pura illusione, e questa illusione può diventare più pericolosa di qualsiasi attacco esterno.
L’uscita da questo paradosso non può essere militare: l’unica via reale è la diplomazia, il dialogo tra popoli e il rispetto delle differenze culturali, sociali e religiose. A questa deve accompagnarsi un graduale smantellamento degli arsenali nucleari, nella consapevolezza che la sicurezza non può ridursi alla deterrenza: è invece una costruzione quotidiana di dialogo, fiducia e partecipazione. Come sottolinea Amartya Sen in “Identity and Violence” (2006), la tutela della propria identità non può comportare la cancellazione di quella altrui; la convivenza nasce dal rispetto delle differenze, non dalla pretesa di uniformarle.
In questo senso, la vera responsabilità delle democrazie è duplice: salvaguardare le proprie origini senza manipolarle per apparire più accettabili, e creare condizioni in cui l’altro possa fare lo stesso. Solo così possiamo disinnescare la “casa di dinamite” globale, costruendo un mondo stabile, immune alle retoriche guerrafondaie e agli interessi neoliberisti, pienamente consapevole dei propri rischi e capace, finalmente, di custodire la propria umanità.


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